La scomparsa di don Bruno Maggioni ci fa ringraziare il Signore per il grande dono che è stato per la Chiesa in modo particolare per la diocesi di Como. Grande e umile biblista ha spezzato la parola di Dio e ci ha insegnato ad amarla calandola nella quotidianità. Lo volgiamo ricordare con due interventi Il primo del Card. Ravasi biblista e amico di don Bruno e l’omelia del vescovo Oscar ai fumerali.
31 ottobre 2020 L’Osservatore Romano
Se avesse voluto scegliere un motto personale, avrebbe potuto optare per una netta affermazione del suo amato Paolo, l’Apostolo: «Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1 Corinzi 2, 2). Tutti noi biblisti italiani dovremmo senza esitazione riconoscere che nessuno tra noi ha annunciato, commentato, proclamato la Parola di Dio come monsignor Bruno Maggioni, la cui ampia e intensa esistenza terrena si è conclusa a 88 anni giovedì scorso nella città di cui era presbitero, Como. La sua bibliografia è imponente, perché la sua ricerca esegetica e teologica ha percorso tutti i principali itinerari delle Sacre Scritture.
Certo, l’orizzonte fondamentale è stato quello neotestamentario, perlustrato in tutte le sue traiettorie storico-letterarie e tematiche principali ma anche nei suoi angoli più segreti. A dominare erano due campi ai quali aveva dedicato una vera e propria biblioteca di saggi e di riflessioni: i Vangeli e l’epistolario paolino. Come egli stesso scriveva, l’originalità del cristianesimo è da cercare in una sorta di ribaltamento radicale: «Non è l’uomo che muore per Dio, ma Dio per l’uomo. Per l’immaginazione religiosa degli uomini, è normale pensare che l’uomo sia pronto a dare la vita per Dio, ma il Vangelo racconta che un Figlio di Dio ha dato la vita per l’uomo. Il movimento è capovolto». E il volume in cui annotava questa visione radicale cristiana, scritto a quattro mani con un teologo suo concittadino, Ezio Prato, s’intitolava appunto Il Dio capovolto.
Il lineamento più luminoso del suo volto di studioso e di sacerdote è stato quello della «comunicazione» nell’autenticità della sua radice etimologica: il condividere un munus, un dono. Anziché arroccarsi nell’oasi protetta di un linguaggio teologico autoreferenziale, spesso così criptico da rasentare l’esoterico tipico di alcuni colleghi, don Bruno si è costantemente avviato lungo i sentieri della divulgazione, attraverso un linguaggio trasparente e simbolico o parabolico. Per averne la prova, basti scorrere alcuni suoi titoli nei quali amava introdurre la categoria narrativa: Il racconto di Marco (oppure di Matteo o di Giovanni o di Luca), I racconti evangelici della passione (o della Resurrezione). Ecco allora affiorare, sempre nelle titolature, immagini come «la pazienza del contadino», «la brocca dimenticata», «il seme e la terra», «un tesoro in vasi di coccio», «la cruna e il cammello», «forza e bellezza della Parola», «era veramente uomo», «la difficile fede», «la speranza ritrovata», «come la pioggia e la neve» e così via.
In filigrana si intravedeva sempre l’ammiccamento biblico e nelle sue righe, sotto il manto di un dettato limpido e coinvolgente, si intuiva però il retroterra della sua attrezzatura scientifica che l’aveva condotto anche a salire su cattedre accademiche nel Seminario di Como, ma soprattutto nella Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (ove siamo stati colleghi a lungo) e nell’Università Cattolica di Milano. Si configurava, così, un altro lineamento della sua persona di docente e testimone: è stato immenso il suo magistero orale, con presenze che spaziavano dai congressi ufficiali alle piccole comunità parrocchiali, dalle platee culturali qualificate agli ambiti più familiari e spontanei.
Se volessimo ancora una volta attribuirgli un motto, si potrebbe ricorrere all’appello della Prima Lettera di Pietro: «Rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Questo, però, sia fatto con dolcezza, rispetto e retta coscienza» (3, 15-16). Chi l’ha conosciuto, ascoltato e avuto come amico non può dimenticare la sua bontà che traspariva dal suo stesso carattere, la semplicità che rasserenava, la sua passione di essere anche pastore a Naggio, sul lago di Como, una piccola parrocchia della diocesi comasca, la sua libertà di pensiero anche nei confronti di certe lentezze, divagazioni, rigidità ecclesiali. Si poneva in ascolto attento anche degli ultimi con le loro domande ingenue che, però rivelavano un desiderio di ascolto, ignorato spesso da coloro che, come i farisei del Vangelo di Giovanni, detestano «questa gente che non conosce la Legge ed è maledetta» (7, 49).
In un’intervista del 2012, dopo aver ancora una volta “capovolto” la lamentazione di molti sulla degenerazione della società contemporanea scoprendovi, invece, fermenti inediti, chiedeva ai laici un dono: «Vorrei che mi aiutassero a incontrare Dio nella vita e nel mondo ordinario, nella quotidianità dei rapporti. La loro storia possa servire ad approfondire il Vangelo per testimoniarlo a tutti». Come il filosofo credente Soeren Kierkegaard, era convinto che, se «il principio della filosofia è la mediazione, per il cristianesimo lo è il paradosso», proprio come affermava l’Apostolo, certo che il cuore della fede cristiana fosse «scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani» (1 Corinzi 1, 23), un paradosso che tuttavia ha la capacità di custodire la coerenza piena della sapienza e di essere un veicolo indispensabile di conoscenza.
Per questo egli s’era battuto perché la Bibbia risuonasse anche fuori delle frontiere ecclesiali, sia come provocazione esistenziale e morale, sia come «grande codice» della cultura occidentale secondo l’espressione dell’artista William Blake, divenuta ormai una locuzione emblematica comune, soprattutto dopo il saggio critico omonimo di Northrop Frye. Infatti, in quella stessa intervista dichiarava: «Nelle scuole, come si studia l’Iliade e l’Odissea, si può anche leggere la Bibbia. Nella scuola italiana, europea, si studia il greco, perché è nelle nostre radici, ma lo è anche il pensiero giudeo-cristiano. Per insegnare la Bibbia bisogna farlo molto bene, e sono sicuro che essa piacerebbe agli studenti almeno quanto i grandi classici. In passato c’era una cultura ostile a questo progetto… E in fondo anche la Chiesa non ne era molto convinta, temeva che l’introduzione della Bibbia sostituisse l’ora di religione. Invece deve diventare la lettura di un grande testo culturale. Molti pensano che la Bibbia sia un libro per preti e monaci, invece è un testo di alta letteratura. Peccato!».
Tanto altro si dovrebbe aggiungere per ricomporre un ritratto di Bruno Maggioni, grande credente e sacerdote, testimone, biblista, annunciatore della Parola. L’amicizia che mi ha legato a lui, fatta di incontri, di dialoghi e di condivisioni ideali, anche per la vicinanza geografica e accademica, in questi ultimi anni — col mio approdo a Roma — era diventata implicita, ma era rimasta costante. Merita, però, di essere citato l’ultimo ricordo, un breve scambio telefonico di non molto tempo fa. Ormai la voce, che era risuonata per decenni con la sua tipica pacatezza e un’amabile inflessione lombarda, una voce che è ancora nell’orecchio della folla di coloro che l’hanno ascoltato, si era ridotta a un filo esile.
Eppure si sentiva vibrare ancora forte proprio la Parola per eccellenza: avevamo, infatti, parlato solo di temi esegetici ed ecclesiali. In uno dei suoi libri, La brocca dimenticata (1999), dedicata ai dialoghi di Gesù, aveva scritto una frase a prima vista sorprendente: «La verità della testimonianza di fede è la sua capacità di rinviare». Essa non si rinchiude in se stessa e nell’io, ma rimanda a un Altro e a un Oltre trascendente, ossia a Dio, a Cristo e alla Parola. Don Bruno Maggioni è stato la mano che con la sua penna svelava la ricchezza del testo sacro a molti, attraverso i suoi libri e gli innumerevoli articoli di giornali e riviste, è stato la voce che comunicava il fremito della Parola divina che consola ma anche inquieta le coscienze, è stato il compagno di viaggio di tante persone in ricerca, alle quali offriva — come suggeriva il Salmista (119, 105) — nella Bibbia la lampada che rischiara i passi nella notte e nel cammino quotidiano della vita.
di Gianfranco Ravasi
Omelia del vescovo Oscar al Funerale di Don Bruno Maggioni
31 novembre 2020
Vogliamo innanzitutto ringraziare e benedire il Signore Gesù per il grande dono che ha concesso alla nostra Chiesa di Como regalando don Bruno, quale padre, fratello, amico, maestro e testimone. Intensa è pure la riconoscenza delle migliaia di persone che si sono abbeverate al suo insegnamento in moltissime diocesi italiane e nelle varie missioni che don Bruno ha visitato nel mondo. Non c’è ambiente ecclesiale, dalla cattedrale al seminario, dalle parrocchie della diocesi ad altri ambienti culturali, in cui la parola di don Bruno non sia più volte risuonata e la sua saggezza, unita alla chiarezzanell’insegnamento, non abbia conquistato gli uditori. Lo conferma la vostra presenza a questa celebrazione eucaristica di commiato nella quale tutti insieme vogliamo affidarlo a Cristo quale suo degno pastore.
Ringrazio della loro vicinanza i padri Vescovi, i sacerdoti, le persone consacrate, i missionari e le missionarie, i colleghi dell’Università e tutti i membri del Popolo di Dio che si sono uniti alla nostra preghieraprovenienti anche da altre diocesi italiane. Saluto in modo particolare, gli affezionati parrocchiani di Muggiò, di Naggio e i familiari di don Bruno, con la signora Tatiana,che l’hanno accompagnato nella vecchiaia e nella malattia, fino all’ultimo respiro.Tutti siamo debitoria don Bruno, consapevoli che il livello dimaturità di fede che ciascuno di noi ha raggiunto, ma anche come comunità cristiana, è in parte il frutto della sua visione di insieme, dei suoi orientamenti, del suo insegnamento, dell’orizzonte verso il quale siamo stati da lui avviati. Il nostro contesto ecclesiale si è notevolmente arricchito della presenza creativa e stimolantedi don Bruno, il quale ha saputo tradurre e condividere le intuizioni del Concilio Vaticano II, frutto della ricchezza della sua elaborazione personale, ma anche della esperienza maturata in altri ambienti ecclesiali, là dove egli ha offerto collaborazioni significative, oltre che con le sue pubblicazioni, che hanno contribuito a stimolareun amore sincero verso la Parola di Dio. La fedeltà di Dio dispone le persone giuste al momento più opportuno. Esse sanno interpretare la sua volontà racchiusa nella sua Parola e la manifestano mediante la loro intelligenza vivace e nelle forme e nei linguaggi più adatti alla sensibilità del tempo.
I veri interpreti della Parola, e don Bruno è stato uno fra i più autorevoli, conoscono quello che i fedeli hanno bisogno di sentirsi dire. Abbiamo goduto a lungo della vicinanza amica di don Bruno, della sua sapienza, frutto di una intensa e appassionata consuetudine con la Parola di Dio,unita a una calda giovialità. Come sempre, gli uomini grandi non si impongono, né fanno pesarela loro superiorità, ma si rapportano in tutta semplicità, condividendo con gioiae stupore quanto anch’essi hanno ricevuto, quasi schernendosi per ciò che essi sanno manifestare. Così è stato l’atteggiamento di don Bruno: ha spezzato la Parola di Dio, di cui era innamorato, perché diventasse pane quotidiano sulla tavola di tutti. Non attraverso linguaggi per iniziati, ma in una forma familiare, adatta a ogni sensibilità e a ogni livello di preparazione, con una chiarezza e una semplicità tale da rendere amabile e gustosa ogni espressione della Parola. Nel Vangelo che ci è stato annunciato, Gesù, il primo e più grande esegeta della Scrittura, si accosta ai due sconsolati discepoliche fanno ritorno da Gerusalemme a Emmaus, nel giorno stesso della risurrezione.Essi lasciano intendere che la crocifissione del Maestro è coincisa con il crollo della loro pretesa messianica. Gesù non abbandona i suoi discepoli alla disperazione, piuttosto li rende edotti circa gli eventi pasquali, a cui essi hanno preso parte, senza tuttavia averne compreso il significato. Egli corregge l’immagine di Messia coltivata dai due discepoli: non un Messia che interviene per salvare Israele con la potenza e la forza, ma attraverso l’umiliazione e la sofferenza della croce.Il Risorto, con grande pazienza e amabilità,”dischiuse loro la mente per comprendere le Scritture”, capovolse cioè il loro sguardo, per far passare i due discepoli dalla speranza perduta alla speranza ritrovata, dalla tristezza alla gioia. La frazione del pane sarà il gesto che apriràgli occhi dei due discepoli. Possiamo intravvedere don Bruno proprio dentro questo episodio, poiché anch’egli, senza ombra di dubbio, come maestro di sapienza e fine esegeta, ci ha aiutato, a imitazione di Gesù nei confronti dei due discepoli, a considerare come tutte le Scritture parlino di Cristo. Con il suo insegnamento don Bruno ci ha presentato il mistero pasquale ponendo al centro il Crocifisso quale rivelazione suprema di Dio e la croce non come una semplice fatalità o peggio una sconfitta. Ci ha aiutato a passare dalla visione della croce come scandaloche ci impedisce di credere, alla certezza di fede che la croce è piuttosto la ragione per cui credere. Don Bruno ci ha avviato a comprendere come nella “fractio panis” i discepoli di Gesù riconoscono il gesto riassuntivo che svela l’identità permanente di Gesù, che ha fatto della intera sua vita un dono, di cui la croce è il compimento finale della sua dedizione. Cristo risorto rimane costantemente presente ai suoi discepoli per portare l’annuncio gioioso della salvezza a tutto il genere umano. Gesù è il Signore di tutti, perciò deve essere annunciato a tutti e dappertutto. Non possiamo dimenticare a questo punto quanto la diocesi di Como sia debitrice a don Bruno di aver formato e promosso la dimensione missionaria, maturata proprio come frutto dell’annuncio della Parola di Dio, con cui egli ha saputo contagiare tutto il nostro popolo di Dio, aiutando le parrocchie a proporsi come luoghi dell’annuncio, ma anche della missione. Ora il Cristo crocifisso e risorto che don Bruno ha appassionatamente cercato, amato e servito in tutta la sua esistenza, lo accoglierà alla sua mensa, lo inviterà a rimanere con lui, insieme ai suoi familiari e ai tanti amici che l’hanno preceduto. E di nuovo lo riconosceranno «nello spezzare il pane», ossia nel suo condividere con tutti la propria vita, per sempre, in una gioia che non avrà fine. Possa godere in cielo quella bellezza infinita che per tanti anni ha cercato di indagare e di trasmettere umilmente su questa terra. DonBruno, faccia a faccia con Dio, potrà così pronunciare con le sue labbra le parole ascoltate nella prima lettura: “Ecco il nostro Dio, il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza”.